UN’ALTRA FAMIGLIA DISTRUTTA
Qui viveva la famiglia Naspo. Quattro sono le persone decedute, tra cui Antonio di soli 3 anni. La sua mamma non fu mai ritrovata. Lo zio Pierino si salvò perché quella sera aveva raggiunto gli amici poco lontano. Ricorda che, appena resosi conto dell’accaduto, il suo primo pensiero fu rivolto alla famiglia e si avviò correndo verso casa sua. Per il primo tratto il paesaggio era immutato poi, improvvisamente, una distesa di ghiaia e fango. Il luogo era irriconoscibile e si rese conto di essere arrivato dove sorgeva la sua casa solo perché inciampò nei piedi di suo padre. Tornò indietro con la disperazione nel cuore ripetendo a chiunque incontrasse “ho perso tutto; i miei sono tutti morti”.
In quegli anni erano molte le persone che per lavoro si trovavano lontano dal paese. Saputo della tragedia, rientrarono immediatamente con ogni mezzo.
Italo ricorda
La mia più grande impressione fu il percorre di notte i luoghi del disastro, vedere il lago illuminato dalle fotocellule, un’acqua sporca, altissima, piena di detriti, tronchi e masserizie che galleggiavano; udire l’incessante brontolio del Toc; guardare la montagna luccicare alla luce dei fari e che appariva ai nostri occhi, un mostro pronto a divorarti da un momento all’altro; camminare per le vie, dove il silenzio regnava sovrano, come se fossimo in un paese fantasma.
Nei giorni che seguirono, tornando a Erto, avevo la sensazione che fosse venuta la fine del mondo; con gli altri compaesani ci si guardava negli occhi, sgomenti, senza parlare. Noi giovani in forza, ci mettemmo a disposizione per cercare i dispersi. A me chiesero di fare da guida in Pineda, indicavo alle squadre degli alpini i luoghi dove prima c’erano le case. Di alcune, come quella della famiglia Sacrato e Nastasia non c’era più niente; da Naspo qualche tratto di muro perimetrale e scavando recuperarono una salma. Nel sottoscala trovammo la birra prodotta in casa.
I versi struggenti della poetessa Novella Cantarutti dedicati alle vittime
Vajont 1963
La morte è un sigillo di fango sulla bocca, la vita un ricordo strozzato.
La terra è un deserto indurito, la montagna uno squarcio capovolto nell’acqua.
L’acqua nutriva la terra, portava la luce; ora è una maledizione esplosa
dalla strettoia delle rocce a sommergere tutto.
Le braccia della madre aperte non hanno raggiunto la culla, i bimbi hanno concluso il sonno sotto le ali di Dio.
A chi si è svegliato nel rombo si è troncato il gesto e il pensiero, sommerso l’urlo in bocca, cancellata la paura, frantumate la vita e la carne.
Sopra le case perse e la gente sepolta c’è il fango, ci sono mani che cercano, vive di sangue, ci sono cuori arsi dall’affanno.
I corpi gemono sotto quella coltre e non sanno chiamare; quando
appaiono non possono ricomporre il viso per farsi conoscere.
Saranno uno per tutti, i morti del gran cimitero sotto mille e una croce.
Si dissolverà sopra Longarone il sentore acre dei corpi disfatti,
la montagna marcia placherà i suoi tremiti, torneranno limpide le acque
del Vajont e del Piave, solo il vento ululerà tra le case svuotate di Erto
e di Casso; ma non sarà pace né fine. Sul cuore di una gente sono i morti:
un peso che atterra.
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